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«SI' AL DIALOGO, MA SUU KYI CAMBI LINEA»


Alla fine il generale si è pronunciato: un mezzo sì. Than Shwe, il capo della giunta militare birmana, secondo la tv di regime avrebbe garantito all' inviato dell' Onu Ibrahim Gambari di essere «pronto a incontrare personalmente Daw Aung San Suu Kyi per un dialogo» a patto che quest' ultima, leader dell' opposizione democratica e premio Nobel per la pace, «abbandoni il suo atteggiamento di contrapposizione e assoluta devastazione» e allo stesso tempo rinunci alla richiesta, rivolta alla Comunità internazionale, di «sanzioni economiche e imposizione di ogni tipo di pressione» dall' estero. Un sì condizionato. Comunque una rara manifestazione di disponibilità dell' uomo forte della Birmania, chiuso con i suoi generali nella nuova capitale «fortezza» di Naypyidaw, circondata dalla giungla a più di 300 chilometri da Rangoon. Se non è la prima volta che dalla giunta arriva l' offerta di un qualche tipo di «dialogo» in cambio di una disposizione più «morbida» di Suu Kyi (12 anni agli arresti domiciliari), è una novità che il generale Than Shwe acconsenta a stringere la mano della leader della Lega nazionale per la democrazia. Il dittatore nutre avversione per Aung San Suu Kyi al punto che non ne pronuncerebbe mai il nome: userebbe locuzioni tipo «la strega», oppure «quella lì». A fronte di questo segnale di «moderazione», la situazione a Rangoon e nelle altre città teatro delle rivolte represse nel sangue nei giorni scorsi sono tutt' altro che tranquillizzanti. Gli agenti della polizia politica continuano gli arresti di presunti oppositori e monaci. I militari passano di notte di casa in casa. I residenti si accordano per rimanere di guardia e lanciare un segnale di allarme. Espedienti poco efficaci se è vero che, secondo fonti di regime, sono oltre duemila gli arresti (l'opposizione ne denuncia ottomila solo nell' area di Rangoon). Suddivisi in quattro gruppi: i leader della rivolta, quelli che hanno preso parte ai cortei, chi ha solo applaudito e i semplici passanti. A seconda della categoria, rischiano dai 2 ai 20 anni di carcere. In questa atmosfera di apparenti aperture e continua repressione, ieri il segretario generale dell' Onu Ban Ki-moon ha ricevuto da Gambari il rapporto sulla sua missione di quattro giorni in Birmania mentre il Consiglio di sicurezza si riunirà per discutere i recenti avvenimenti nel Paese. Ban, sulla base delle prime indiscrezioni, aveva detto che la missione del suo inviato non «poteva considerarsi un successo». Evidentemente le aspettative erano alte. Ma la giunta, forte del sostegno di un alleato storico come la Cina, e l' atteggiamento condiscendente della Russia, ha potuto schiacciare la rivolta con relativa impunità. Pechino ha chiesto ai generali «moderazione» per non compromettere la propria immagine a meno di un anno dalle Olimpiadi. E l' ha ottenuta: rispetto alla rivolta del 1988, il bilancio - per quanto pesante - è meno tragico. La miseria dei birmani è la stessa di 19 anni fa. «Non avevamo scelta - sono le testimonianze riportate dall' interno del Paese - siamo alla fame e non abbiamo libertà. Non ci è rimasto nulla da perdere. A parte la vita».

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