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LE PAROLE DI FUOCO

A Vladimir Putin che il giorno prima aveva giudicato «inaccettabile» un’azione militare contro l’Iran, George Bush risponde che un Iran dotato di armi nucleari potrebbe portare alla terza guerra mondiale. L’escalation delle parole raggiunge così un livello da allarme rosso, e mentre conferma la rotta di collisione tra Washington e Mosca avvicina ulteriormente la prospettiva di un attacco Usa contro le centrali iraniane.
Nella scelta di usare un’espressione fino a ieri appannaggio della letteratura fantapolitica, risulta evidente la volontà di Bush di drammatizzare al massimo la crisi iraniana. Fino al punto di precostituire una giustificazione assoluta per l’ancora ipotetico attacco: facendo una guerra circoscritta, si sarà evitata una guerra generale. Il messaggio è sì una risposta alla Russia, ma nelle intenzioni della Casa Bianca riguarda anche gli alleati europei e chiunque sia chiamato a dar prova di saggezza nell’area mediorientale: dalla Turchia, che si appresta a colpire i curdi in territorio iracheno, ai palestinesi e agli israeliani, che non stanno facilitando la preparazione della conferenza di Annapolis.
Bush, che non è il momento di giocare col fuoco perché il fuoco vero è dietro l’angolo. E si chiama Iran, Ahmadinejad, armi nucleari. Usando le parole come una mazza da baseball, il presidente americano vuole mettere tutti al cospetto di elementi che rendono unica la crisi iraniana, per esempio rispetto a quella nordcoreana.
Primo, c’è la sicurezza di Israele. Il sorgere di un’altra potenza nucleare nella regione sarebbe comunque vista come una sfida da Gerusalemme. Ma se alla testa di questa aspirante potenza c’è un presidente che vorrebbe trasferire lo Stato ebraico in Alaska e che non riconosce l’Olocausto, allora il pericolo è tale da fare scattare la clausola di garanzia che ha sempre legato Israele all’America. E nemmeno gli europei possono guardare dall’altra parte, con il fardello storico che si portano sulle spalle. Putin dice che l’Iran ha ogni diritto di accedere al nucleare civile, come sostiene di voler fare Teheran. Giusto, lo stabiliscono i trattati e lo ha appena ricordato all’Onu anche Sarkozy. Ma se il sospetto viene autorizzato da 18 anni di inganni, e se Ahmadinejad parla come chi vuole essere attaccato (potrebbe volerlo davvero, per miopi calcoli di potere personale), allora lo spazio della trattativa fatalmente si riduce. Tanto più che a Bush non dispiacerebbe far dimenticare, prima di lasciare la Casa Bianca, che la sfida iraniana ha ricevuto un possente incoraggiamento dal disastro iracheno.
Secondo, c’è la proliferazione incontrollata. Un Iran con la bomba indurrebbe le monarchie sunnite del Golfo a imitarlo per coprirsi le spalle, e il via libera varrebbe anche per altri, forse l’Egitto, forse la Siria, forse la Turchia. Nessuno potrebbe più frenare la diffusione degli armamenti nucleari, né impedire che finiscano in mano a organizzazioni terroristiche. Senza voler sottoscrivere il calcolato allarmismo di Bush, è chiaro che la minaccia di guerra -e di guerra nucleare- crescerebbe.
Esiste un terzo argomento, di cui gli Usa di Bush non parlano. Spingendo sull’acceleratore del nucleare e intrattenendo l’ambiguità sulle sue reali intenzioni, Ahmadinejad vuole conquistare per l’Iran il riconoscimento di una primaria influenza regionale. L’America questo non può permetterlo, perché ne risulterebbe diminuita la sua influenza con annessi rischi energetici. E in casi del genere una superpotenza sa cosa fare.
Davvero è inevitabile la guerra piccola per prevenire quella grande, davvero non possono essere negoziati controlli permanenti e stringenti sul carattere civile del nucleare iraniano? Bush non ha ancora detto questo, ma chi deve capire, Ahmadinejad in testa, avrà certamente capito.

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