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Napolitano incontra i "piccoli"

Dopo quelle della giornata di venerdì sono proseguite le consultazioni al Quirinale per trovare una soluzione alla crisi di governo. Il capo dello Stato ha incontrato tutti i piccoli partiti di maggioranza e opposizione. «Per ora è impossibile fare anticipazioni» ha affermato Napolitano al termine delle consultazioni odierne. «È impossibile adesso fare qualsiasi anticipazione e sintesi sulle consultazioni. È una piccola catena di montaggio. Posso solo dire che c'è un perfetto rispetto dei tempi» ha aggiunto il presidente della Repubblica. Abbiamo scandito un calendario - ha proseguito Napolitano - concedendo tempi ragionevoli a tutti. Se i dibattiti fossero tutti così ordinati ci guadagneremmo». Il capo dello Stato si è poi congedato ricordando che lunedì e martedì le consultazioni potranno avere una «crescente importanza», quando saranno ascoltate le principali formazioni parlamentari.

Il primo colloquio odierno nello Studio alla Vetrata è stato con il gruppo Autonomie libertè democratie. Prima di lasciare il Quirinale Carlo Perrin e Roberto Nicco hanno spiegato la loro contrarietà allo scioglimento delle Camere. «Siamo contrari - ha detto Nicco - all'interruzione della legislatura. Il momento è particolarmente delicato. Abbiamo detto al Capo dello Stato che serve un momento di pacificazione per ridare fiducia ai cittadini. Occorre avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche con l'obiettivo di dare vita ad un governo che affronti la revisione della legge elettorale, le riforme istituzionali essenziali e alcune misure sul piano economico e sociale necessarie in questo particolare momento».

Successivamente ad incontrare Giogio Napolitano sono stati i rappresentanti della Sudtirolen Volkspartei (SVP). Al termine dell'incontro, il portavoce Sigfried Brugger ha ribadito il no alle elezioni anticipate «che non risolvono i problemi di sistema del Paese» ed il sì «ad un governo di transizione impegnato nella realizzazione di una nuova legge elettorale e nella risoluzione dei problemi più urgenti: un esecutivo sul modello del governo Ciampi nel 1993». Brugger ha, infine, ribadito che quella attuale «è una crisi più che politica del sistema politico. Senza la nuova legge elettorale, equilibrata ed adatta al sistema politico italiano non si risolve». Il modello scelto dalla Svp è quello tedesco, «per dare stabilità, tutelare e privilegiare il rapporto eletto-elettore e non la regia delle segreterie di partito».

Elezioni anticipate il prima possibile. È questa invece la posizione espressa dai rappresentanti del Nuovo Psi. «Solo un Parlamento e un governo legittimati dal voto dei cittadini - ha affermato il socialista Stefano Caldoro - potranno affrontare una nuova fase costituente». Per il democristiano Gianfranco Rotondi, invece, il ricorso alle urne potrebbe essere evitato solo se «i due partiti più grandi assumessero l'impegno a governare il paese per tutti e tre gli anni della legislatura. Se questo non è possibile è inutile perdere tempo».
Una posizione analoga è stata espressa anche da Francesco Nucara ed Antonio Del Pennino (Pri) e da Giovanni Pistorio (Mpa). «Abbiamo chiesto di verificare la possibilità di formare un governo di grande coalizione. Se questo non fosse possibile allora è necessario andare subito ad elezioni» ha detto invece Mauro Cutrufo della Democrazia cristiana per le autonomie.

Successivamente il capo dello Stato ha incontrato la delegazione dell'Uduer. Per tutti ha parlato il suo leader Clemente Mastella. «L'Udeur è contrario all'ipotesi di governi tecnici, siamo per il voto anticipato e per aprire una nuova fase costituente» ha spiegato l'ex ministro della Giustizia. Mastella ha poi ribadito che a questo punto sono necessarie elezioni politiche anticipate ed è difficile dare vita ad altre soluzioni. «A meno che in questi giorni dovessimo assistere ad un miracolo. In tal caso, per quanto scettici e chiamati a verificarne l'autenticità non ci dimostreremmo miscredenti».

Un nuovo governo per approvare la legge elettorale, partendo dal modello regionale su cui era fondata la bozza Chiti. Ma se un accordo di questo tipo non fosse possibile, si vada ad elezioni gestite dal governo di Romano Prodi, soluzione in linea con quanto avviene in tutte le democrazie occidentali mentre ogni altra soluzione sarebbe un bizantinismo. Questa invece la posizione dei Socialisti dello Sdi espressa a Napolitano dal capogruppo alla Camera Roberto Villetti. All'incontro con il capo dello Stato non hanno partecipato i Radicali, che non si sono presentati.

L'Italia dei Valori ha chiesto invece di tornare al più presto al voto, tuttavia si è dichiarata disponibile «ad un governo istituzionale a brevissimo tempo e soltanto per l'emergenza» rappresentata dalla necessità di approvare una nuova legge elettorale. La posizione dell'Idv è stata spiegata dal suo leader Antonio Di Pietro al termine dell'incontro con Napolitano.

Affidare il reincarico a Romano Prodi per non interrompere il lavoro di risanamento avviato dal governo di centrosinistra è stata invece la richiesta dei Verdi a Napolitano. «I Verdi - ha spiegato il leader Alfonso Pecoraro Scanio al termine del colloquio - hanno chiesto al presidente della Repubblica di reincaricare l’onorevole Prodi che ha ricevuto la fiducia in una delle due Camere per non interrompere il lavoro di risanamento economico, proprio nel momento in cui si possono e si devono aumentare i salari dei lavoratori e si deve investire su giovani e precari».

«Il Pdci dice no a qualsiasi ipotesi di governo tecnico o istituzionale e ribadisce che appoggerà un eventuale reincarico a Romano Prodi con la stessa maggioranza uscita dalle urne, altrimenti l'unica ipotesi è il voto anticipato» ha detto invece il segretario del Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, al termine dei colloquio con il Capo dello Stato. «Siamo indisponibili a qualsiasi soluzione che snaturi la coalizione uscita dalle urne - ha spiegato Diliberto - dunque siamo contrari a qualsiasi ipotesi di governo tecnico, istituzionale, di larghe intese o di scopo come il fantasioso lessico della politica italiana definisce questi esecutivi».

A conclusione delle consultazioni della giornata odierna il capo dello Stato ha incontrato gli esponenti della Sinistra democratica. Il suo leader Fabio Mussi ha annunciato che la sua formazione è favorevole a un governo a termine per fare una nuova legge elettorale. «Noi siamo disposti a votare un governo a termine di breve durata, con mandato limitato e con pochi punti programmatici» ha detto Mussi, precisando anche che Sd «ritiene impensabile che in un eventuale governo a termine possano far parte i trasformisti che hanno rovesciato Prodi e il centrosinistra».
Il giro di consultazioni del capo dello Stato era iniziato venerdì pomeriggio, quando al Colle erano saliti i presidenti delle Camere, Franco Marini e Fausto Bertinotti, e i rappresentanti dei gruppi misti di Camera e Senato e delle Autonomie. Dopo una lunga pausa, Napolitano riprenderà i suoi colloqui lunedì, incontrando i diversi partiti in ordine crescente secondo la loro rappresentatività in Parlamento. Si chiude martedì con Fi e Pd, in mattinata, e con i presidenti emeriti della Repubblica nel pomeriggio. «Ho trovato la conferma che abbiamo un presidente saggio». È il primo commento del presidente della Camera, Fausto Bertinotti sulla crisi di governo. In merito alla possibilità di un governo «ponte» per superare la crisi Bertinotti non si sbilancia ma afferma che «penso semplicemente che sarebbe bene che il paese avesse la possibilità di votare una legge che consenta agli elettori di scegliere,a chi vince di governare e ai partiti di ritrovare un rapporto forte con la società civile», conclude. Dalla seconda carica dello Stato arriva invece una nuova smentita sulle voci di un possibile mandato esplorativo proprio a Franco Marini. «Ripeto quello che ho già detto ieri: ho già il mio lavoro e non cambio idea. Comunque tutto è nelle mani del Capo della Repubblica». Così il presidente del Senato, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano sulle consultazioni del Quirinale e sull'ipotesi che possa guidare un governo istituzionale.

Marini: «Non aspiro ad alcun incarico»

«Non aspiro ad alcun incarico». Così il presidente del Senato, Franco Marini, ha smentito tutte le voci che lo indicavano in pole position per la guida di un eventuale governo istituzionale di transizione dopo la caduta dell'esecutivo di Romano Prodi. «È da un anno che dico che la responsabilità che ho è già grande e quindi non aspiro proprio ad avere alcun altro incarico. Ci saranno le consultazioni e io ho grande fiducia nelle capacità del presidente Napolitano. Credo anche che le forze politiche debbano pensare agli interessi generali perché è una fase delicata del Paese».
L'ufficio stampa del Quirinale ha comunicato il calendario delle consultazioni del presidente della Repubblica. Il capo dello Stato ha promesso consultazioni «meticolose, ma rapide» che proseguiranno fino a martedì, chiudendosi con l'incontro di Napolitano con le delegazioni del Partito democratico e di Forza Italia, seguite dagli ex presidenti della Repubblica.
Difficile comunque che la crisi che si aperta con la sconfitta in Senato di giovedì possa rapidamente chiudersi, come avvenne un anno fa. Allora, dopo un giro di consultazioni, Napolitano rimandò alle Camere lo stesso Prodi, visto che non c'era stato un voto formale di sfiducia e che la maggioranza aveva espresso la propria preferenza per il reincarico, oltre a prendere l'impegno di modificare la legge elettorale. Ma ora la maggioranza uscita dalle urne non esiste più, c'è stato un voto formale di sfiducia (almeno al Senato), e la legge elettorale è ancora la stessa di due anni fa. Dieci anni fa, inoltre, un Prodi fresco di sfiducia respinse l'idea di un reincarico, avanzata allora da Oscar Luigi Scalfaro. In più il centrodestra sembra compatto, con l'eccezione dell'Udc, nel chiedere il ricorso alle elezioni anticipate. Ma nei giorni scorsi si è parlato di un presidente della Repubblica propenso a cercare la via di un nuovo governo, che abbia come unico mandato quello della riforma della legge elettorale. E che cerchi il consenso su un nome sul quale converga il maggior consenso possibile: Mario Monti o il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi. Oppure i presidenti di Senato e Camera, Marini e Bertinotti. Da questo scenario appare probabile che la soluzione della complessa crisi richieda tempi lunghi.

Cade il Governo prodi

Non ce l'ha fatta. Il sogno di Romano Prodi si è infranto in Senato di fronte all'arida realtà dei numeri. Il presidente del Consiglio e il suo governo non hanno ottenuto infatti la fiducia richiesta. Hanno votato no in 161, mentre i sì sono stati 156. Un senatore (Scalera) si è astenuto, mentre tre erano gli assenti (Andreotti, Pallaro e Pininfarina).
Il premier non è rimasto per ascoltare l'esito del voto, ma durante la votazione è immediatamente tornato a Palazzo Chigi.
Il voto è arrivato al termine di una seduta ad alta tensione dove il premier aveva chiesto un voto di fiducia proprio per verificare l'esistenza di una maggioranza a sostegno del governo dopo la decisione dell'Udeur di uscire dall'esecutivo. E proprio la decisione di un senatore dell'Udeur, 
Nuccio Cusumano, di dare il proprio consenso al governo nonostante la posizione ufficiale del partito, schierato per il no, aveva causato un battibecco con scambio di violente accuse che si era concluso con un malore dello stesso Cusumano e con una sospensione della seduta per una decina di minuti.
Nell'intervento con cui aveva aperto la seduta, Romano Prodi aveva chiesto ai senatori un voto «motivato», promesso riforme istituzionali e un ritocco della squadra di governo. Il premier aveva poi ribadito di voler «il voto esplicito» di ciascun parlamentare nel rispetto della Costituzione spiegando che l'Italia «non si può permettere il lusso» di un vuoto di potere per far fronte all'emergenza economica e all'urgente bisogno di riforme istituzionali. Il premier aveva aggiunto poi di essere «ben consapevole» del fatto che il governo aveva bisogno di una ridefinizione per «rafforzare le sue capacità decisionali, snellire le sue procedure, migliorare la sua resa, forse ridefinire le sue strutture e la sua composizione». Prodi aveva esordito parlando di «crisi politica ed esprimendo solidarietà a Clemente Mastella, «contro le strumentalizzazioni e gli opportunismi che si sono prodotti nei suoi confronti». «Sono qui al Senato per rispettare e applicare la Costituzione con lo spirito dei padri costituenti. La Carta non prevede infatti la prassi delle crisi extraparlamentari, e neanche quella delle mozioni di sfiducia individuali a un ministro. Vi chiedo di giudicare il lavoro dell'esecutivo con senso di responsabilità - ha detto Prodi -. Il Paese ha urgente bisogno di riforme, corre dei rischi per il grave ritardo in cui si trova. Ribadisco il mio impegno affinché non si vada a un voto che condanna il Paese all'ingovernabilità. Chiedo un voto motivato, nessuno può sottrarsi nel dovere di dire quale altra maggioranza chiede al posto di quella attuale». Successivamente nelle repliche agli interventi, prima delle dichiarazioni di voto, il premier si era poi definito «coerente e non testardo» per la scelta di essere in aula a confrontarsi con i senatori. E aveva poi definito «fango sulla democrazia» tutte le ricostruzioni che parlavano di compravendite di voti e ricatti per cercare di ottenere una nuova maggioranza.
- Ma è stato l'Udeur il protagonista della giornata. Fuori e dentro l'Aula si è consumata la spaccatura del partito, anche se il suo leader Mastella fino all'ultimo ha cercato di non ammetterla: «Non c'è nessuna spaccatura nel mio partito. Come vedete siamo tutti qui tranne uno» (ma i senatori dell'Udeur sono in tutto tre, ndr) aveva detto Clemente Mastella dopo una riunione con i suoi in un ristorante vicino a Palazzo Madama, spiegando che chi non avrebbe votato contro Prodi sarebbe stato espulso. Pochi minuti dopo, però, il senatore Nuccio Cusumano aveva annunciato il suo voto a favore di Prodi e tra i banchi era scoppiato il finimondo. Al grido di «pezzo di merda, pagliaccio, venduto» il capogruppo Tommaso Barbato era corso in aula mentre dal video stava ascoltando la dichiarazione di voto del collega di partito e con le mani aveva mimato una pistola. Al termine del suo discorso e dopo l'attacco di Barbato, Cusumano si era sentito male ed era stato portato via in barella. Al suo indirizzo dai banchi dell'opposizione erano arrivati anche altri pesanti insulti. I commessi erano poi intervenuti per allontanare Barbato dall'Aula e la seduta era stata sospesa.. In mattinata anche Mastella aveva avuto un malore e per questo era stato accompagnato a Roma da un medico.

Sì al dialogo!

Come si comporterebbe il laico professor Massimo Cacciari, da sindaco di Venezia, con un Papa all' università? «Lo accoglierei con immenso piacere... Tutta questa polemica scoppiata a Roma mi pare un grave errore. Francamente me ne sfuggono i fondamenti. Il Papa è una grande autorità morale e culturale, al di là della fede dei singoli. Mi pare doveroso mantenere un dialogo con questa istituzione, se vogliamo limitarla a quel semplice ruolo. Nulla vieterà al rettore, porgendo il benvenuto al Pontefice, di specificare la profonda differenza tra un magistero religioso, come quello di Benedetto XVI, e l' attività propriamente scientifica che deve svolgersi in un' università». Il suo vecchio amico Alberto Asor Rosa (avete condiviso l' esperienza della rivista «Contropiano» tra il ' 68 e il ' 71) dice che l' invito è «una manifestazione di soggezione a una super-autorità papale». «Si sente soggetto subalterno solo colui che davvero lo è... Non mi sono mai sentito subalterno a qualcuno, meno che mai ricevendo il Papa. Alberto Asor Rosa è persona ragionevole. Anche lui riconoscerà che il ruolo del Papa è superiore a me, a qualunque rettore o professore di qualsiasi università. Un po' di modestia non guasterebbe. Modestia, ho detto. Non certo subalternità». Alcuni docenti promettono di togliersi la toga, giovedì davanti a Papa Ratzinger per protesta. Che ne dice? «Un gesto privo di senso e di senno. Il Papa non andrà all' università per processare Galileo o qualche scienziato contemporaneo. Non si metterà a demonizzare Giordano Bruno. Né, credo, difenderà Giuliano Ferrara sull' equivalenza tra pena di morte e aborto. Ritengo molto utile che le istituzioni universitarie e politiche dialoghino con le autorità religiose. Ovviamente, un dialogo nella fermezza». Chi protesta sostiene: la presenza di Benedetto XVI all' inaugurazione è un sigillo culturale su tutto l' anno accademico. «Ma qui parliamo del vescovo di Roma. Alle aperture delle università veneziane è sempre presente il Patriarca. A Milano, ricordo mille presenze del cardinal Martini...». Si parla di cortei per contestare la visita. C' è chi annuncia un nuovo 1968. Cosa ne pensa? «Una sola cosa: è sempre fertile il grembo che partorisce i cretini. Ci saranno manifestazioni? Benissimo, non saranno certo motivo di apprensione né di grande scandalo. Meglio che mettersi a manifestare sarebbe studiare, approfondire, tentare di comprendere. E dialogare. Più faticoso, lo ammetto». Walter Veltroni e Fabio Mussi devono partecipare alla cerimonia nonostante le polemiche laiche? «Ma scherziamo? A questo punto gli toccherà andare comunque, a tutti i costi. Anche se avranno la febbre alta...».

Massimo Cacciari, sindaco di Venezia

Una sconfitta per il paese

A questo punto la decisione era molto probabilmente inevitabile: Benedetto XVI ha preferito non recitare la parte dell'ospite sgradito. Ha preferito evitare allo Stato italiano la vergogna di dover difendere la sua presenza all'Università di Roma schierando i reparti antisommossa, e ha deciso di rinunciare alla sua visita. E' una grande vittoria dei laici. Il «libero pensiero» ha trionfato e i suoi apostoli possono cantare vittoria: ha trionfato la scienza contro l'ignoranza, la ragione contro la superstizione, Voltaire contro Bellarmino. Hanno trionfato i grandi pedagoghi democratici che nei giorni scorsi, dall'alto della loro sapienza, avevano detto il fatto loro a Joseph Ratzinger definendolo una personalità «intellettualmente inconsistente». E’ una vittoria non da poco. Per la prima volta ciò che finora è stato sempre possibile a tutti i pontefici romani, e cioè di muoversi senza problemi sul territorio italiano, di essere accolti in qualunque sede istituzionale, di prendere la parola perfino nell'aula del Parlamento, per la prima volta tutto ciò non è stato invece possibile a Benedetto XVI. E questo nel cuore della sua diocesi, nel cuore di Roma.
Ma che importa? Assai più importante, dovremmo credere, è che i laici abbiano vinto. Peccato che non riusciamo proprio a crederci. Quella che ha vinto, infatti, è una caricatura della laicità. E' la laicità scomposta e radicaleggiante, sempre pronta ai toni dell'anticlericalismo, che cinicamente ha usato la protesta dei poveri professori di fisica piegandola alle necessità della lotta politica italiana, delle risse del centro-sinistra intorno ai Dico e all'aborto, della gara per conquistare influenza sul neonato Partito democratico. E' la laicità che vuole ascoltare solo le sue ragioni scambiandole per la Ragione. Che, nonostante tutte le chiacchiere sull'Illuminismo, nei fatti non sa che cosa sia la tolleranza, ignora cosa voglia dire rispettare la verità delle posizioni dell'avversario, rispettarne la reale identità. E' la laicità che dispensa i suoi favori e le sue critiche a seconda di come le torni politicamente utile. Che da tempo, perciò, non si stanca di scagliarsi contro Benedetto XVI solo perché lo ritiene ostile alle sue posizioni sulla scena italiana e allora va inventandosi chissà quale assoluta diversità tra lui e il suo immediato predecessore, fingendo di non sapere che di fatto non c'è stato quasi un gesto, una presa di posizione importante, di Giovanni Paolo II che non sia stata condivisa, o addirittura ispirata, da papa Ratzinger.
Laicità? Sì, una laicità opportunista, nutrita di uno scientismo patetico, arrogante nella sua cieca radicalità. Con la quale un'autentica laicità liberale non ha nulla a che fare. Che anzi deve considerare la prima dei suoi nemici.

Di Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera

Il contrasto tra Islam e democrazia

Ha ragione lo scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi nel sostenere che «l'islam non è compatibile con la democrazia». Certamente non l'islam dei terroristi di Al Qaeda che hanno appena rivendicato l'attentato suicida che ha posto fine alla vita di Benazir Bhutto. Neppure l'islam degli estremisti islamici che praticano il lavaggio di cervello a milioni di giovani nelle moschee e scuole coraniche, indottrinandoli alla guerra santa e inculcando la fede nel «martirio» islamico. Né infine l'islam moderato nella forma ma dittatoriale nella sostanza, sostenuto dall'Occidente solo per la paura che i terroristi e gli estremisti islamici prendano il potere.

Nell'intervista concessa a Francesca Marretta e pubblicata ieri su Liberazione, Kureishi spiega così la sua sfiducia assoluta: «Il Pakistan è stato formato come Stato democratico per i musulmani, ma gli islamisti non sono capaci di essere democratici, perché mettono la religione davanti a tutto. Islam e democrazia non sono compatibili. Per quanto mi riguarda, il Pakistan non doveva essere creato come Stato. Doveva restare parte dell'India. Musharraf resterà al potere perché gli Usa non permetteranno che il Pakistan diventi una sorta di Stato talebano ». I fatti gli danno ragione.

Se consideriamo gli Stati che si autodefiniscono «Repubblica islamica», quali il Pakistan, l'Iran, le Comore, Mauritania e Afghanistan, in aggiunta all'Arabia Saudita che ha adottato il Corano come Costituzione, ebbene nessuno di loro è democratico. Ma più in generale dei 56 Paesi membri dell'Organizzazione per la Conferenza islamica e che hanno una popolazione a maggioranza musulmana, nessuno rispetta pienamente i parametri della democrazia sostanziale così come è concepita e praticata in Occidente.
Nella gran parte dei casi la democrazia è trattata alla stregua di un rito formale, che si esaurisce nella messinscena delle regole del processo elettorale per legittimare il perpetuamento dei regimi autoritari al potere e violando comunque i diritti fondamentali della persona che sono l'essenza della democrazia sostanziale.

La storia moderna e contemporanea ci insegna che i Paesi musulmani si sono avvicinati in qualche modo all'esercizio della democrazia soltanto quando si sono apertamente ispirati a un modello complessivo di società e di civiltà occidentale, con la separazione sostanziale della sfera religiosa da quella secolare. Perché il nodo principale risiede appunto nella pretesa dell'integralismo e dell'estremismo islamico di definire religiosamente ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone. Alla base c'è la realtà di una religione che, in assenza di un unico referente spirituale, sin dai suoi esordi ha fatto leva sull'interpretazione soggettiva del testo sacro producendo una fede che è plurale ma non pluralista, proprio perché non c'è mai stata la democrazia sostanziata dal rispetto verso la moltitudine di comunità, sette, movimenti e partiti che spesso, singolarmente, rivendicano di essere i detentori dell'unico vero islam. Con il risultato che storicamente l'islam è conflittuale al suo interno prima di esserlo con il mondo esterno.
Ecco perché la radice del male è nell'intolleranza endogena all'islam che dal settimo secolo, quando tre dei primi quattro califfi che succedettero a Maometto furono assassinati da loro correligionari, vede a tutt'oggi i musulmani assumere i panni dei carnefici della maggioranza delle vittime musulmane. E proprio quanto sta accadendo in Pakistan conferma la natura aggressiva di questo terrorismo islamico che massacra principalmente gli stessi musulmani e che, contrariamente a un luogo comune diffuso, non è affatto la reazione alla guerra o all'occupazione di una potenza straniera.

Perfino i musulmani praticanti che beneficiano della democrazia in Occidente, compresi gli autoctoni convertiti all'islam, considerano la democrazia come uno strumento utile al radicamento del loro potere con il fine dichiarato o tacito di sostituirla appena possibile con la «shura», cioè un organismo consultivo, dove ai partecipanti è concesso soltanto definire le modalità attuative della sharia, la legge islamica.

Perché all'uomo non è permesso anteporre la propria legge a quella divina. Fede e ragione vengono ritenute incompatibili. E anche se di fatto non esiste una versione unica e condivisa della sharia, tutti gli integralisti e gli estremisti islamici sono però d'accordo nel rifiuto della democrazia sostanziale.

Di Magdi Allam, Corriere.it

Migliaia ai funerali di Benazir Bhutto

Il giorno dell'addio e del dolore. Ma anche degli scontri e delle manifestazioni di protesta. Centinaia di migliaia di persone hanno partecipato, a Larkana, ai funerali di Benazir Bhutto, uccisa giovedì a Rawalpindi in un attentato kamikaze. Il feretro di legno con il corpo dell’ex primo ministro, coperto da una bandiera rosso-verde-nera (i colori del Partito del popolo del Pakistan che Benazir guidava), è stato trasportato e poi inumato nel mausoleo di famiglia di Garhi Khuda Bakhsh a bordo di un'ambulanza bianca partita dalla casa di Naudero. Un percorso di 5 chilometri tra due ali di gente in lacrime che inneggiava a "Benazir viva". Ad accompagnare la salma, il marito della Bhutto, Asif Zardari, i tre figli e da molti responsabili del Partito del popolo pachistano (Ppp). La Bhutto riposerà accanto al padre, l'ex premier Zulfikar Ali Bhutto, ucciso nel 1979.
Ma le violenze, in Pakistan, non si fermano nemmeno nel giorno dei funerali: un'autobomba è esplosa nella valle di Swat, nella zona nord occidentale ai confini con l'Afghanistan, uccidendo sei persone tra le quali un candidato alle prossime elezioni nel partito del presidente Pervez Musharraf. Lo riferiscono le tv pakistane.
Proseguono anche i disordini in tutto il Paese. La situazione è particolarmente drammatica nella provincia meridionale del Sindh, dove almeno venti persone - tra queste un agente di polizia - sono rimaste uccise. A nulla è valso l'appello alla calma lanciato dal presidente Pervez Musharraf: armati di bastoni ma anche di armi da fuoco, i manifestanti inferociti hanno distrutto e dato alle fiamme centinaia di veicoli. Alle forze di sicurezza è stato impartito l'ordine di sparare ad altezza d'uomo contro i manifestanti che si abbandonino ad atti di violenza. E in effetti gli agenti hanno aperto il fuoco sulla folla in una delle principali città della zona, Hyderabad, ferendone almeno cinque. Nel distretto di Larkana, la violenza è scoppiata dopo che decine di migliaia di persone si sono avviate verso il villaggio di Garhi Khuda Baksh, nella speranza di poter prendere parte ai funerali. Le forze di sicurezza hanno bloccato le strade che portano al villaggio e la gente inferocita ha risposto dando fuoco a macchine ed edifici e urlando slogan contro il governo. I manifestanti hanno anche attaccato e dato alle fiamme tre carceri del distretto di Thatta, liberando oltre 400 detenuti. E circa 4.000 sostenitori della leader dell'opposizione hanno manifestato nella città di Peshawar, nel nord-ovest del paese. La situazione si è invece calmata a Karachi, dove in nottata i manifestanti hanno attaccato e incendiato quattro posti di blocco istituiti dalla polizia oltre a distruggere 180 veicoli. Quaranta persone sono state tratte in arresto.

Nel frattempo Al-Qaeda ha rive ndicato l'attentato che ha ucciso la Bhutto: lo ha reso noto l'emittente televisiva pakistana 'Ari', il cui annuncio è stato però ridimensionato dal ministero dell'Interno di Islamabad. Il portavoce Javed Cheema ha puntualizzato che il suo governo «non è a conoscenza» della presunta rivendicazione, ma si è altresì affrettato a sottolineare come i responsabili siano probabilmente «gli stessi elementi estremistici che in passato hanno perpetrato atti di terrorismo nel Paese», con riferimento all'organizzazione clandestina fondata da Osama bin Laden e ai Talebani afghani suoi alleati, cui sono imputati un'ondata di attacchi che soltanto quest'anno sono già costati oltre ottocento morti. Responsabili dell'Fbi e del dipartimento della sicurezza interna hanno diffuso una nota secondo la quale diversi siti web islamisti, che confermano la rivendicazione di Al Qaeda, affermano che l'attentato è stato organizzato dal numero due della rete terroristica, Ayman al-Zawahiri.

Una situazione caotica, dunque, a pochi giorni dalle elezioni in programma l'8 gennaio. Il governo pachistano ha confermato che il voto (a rischio, secondo molti) si terrà regolarmente. Ad assicurarlo è stato il primo ministro pro tempore, Mohammadmian Soomro: «Le elezioni si terranno per quando sono state annunciate».

Nel frattempo il governo indiano ha deciso di innalzare lo stato di allerta al confine fra India e Pakistan. Non solo. La polizia del Kashmir indiano si è scontrata con centinaia di manifestanti scesi in piazza dopo la preghiera del venerdì per protestare contro l’uccisione della Bhutto. Gli agenti hanno usato gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti nelle strade di Srinagar, la principale città dello stato indiano Jammu-Kashmir, stando a quanto precisato dall'ufficiale di polizia Sajad Ahmed. Non ci sono al momento notizie di feriti.

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